La vera storia del macchinista ferroviere.
Quando i concerti si avviano alla fine, e le richieste si
fanno più insistenti, dopo i successi di tante stagioni, è ormai rituale per Francesco
Guccini chiudere con la sua ballata più popolare: la locomotiva. Dopo oltre vent'anni,
con tutto quello che è avvenuto nel frattempo, questa canzone dal sapore libertario,
continua a smuovere qualcosa negli animi di giovani e meno giovani, in quella parte che
vuole, malgrado tutto, continuare a credere. E quell'immagine, sia pure un po' sinistra,
della locomotiva "come una cosa viva lanciata a bomba contro l'ingiustizia"
mantiene il suo fascino col passare delle generazioni. E questa una ballata che si
richiama a un fatto realmente accaduto il secolo scorso (esattamente il 20
luglio 1893) e, per quanto riguarda i fatti, vi si attiene fedelmente. Si tratta di un
episodio singolare, rimasto se non unico abbastanza raro negli annali ferroviari. La
curiosità di saperne di più ci ha spinto a qualche ricerca, sulla stampa dell'epoca e
negli archivi delle Ferrovie.
"Il disastro di ieri alla ferrovia - l'aberrazione di un macchinista", titola il
quotidiano bolognese Il Resto del Carlino del 21 luglio 1893. Nell'articolo si
legge:
"Poco prima delle 5 pomeridiane di ieri, l'Ufficio Telegrafico della stazione (di
Bologna, ndr) riceveva dalla stazione di Poggio Renatico un dispaccio urgentissimo (ore
4,45) annunziante che la locomotiva del treno merci 1343 era in fuga da Poggio verso
Bologna. Lo stesso dispaccio era stato comunicato a tutte le stazioni della linea, perché
venissero prese le disposizioni opportune per mettere la locomotiva fuggente in binari
sgombri dandole libero il passo in modo da evitare urti, scontri o disgrazie. [...] Capo
stazione, ingegneri e personale del movimento furono sossopra e chi diede ordini, chi si
lanciò lungo la linea verso il bivio incontro alla locomotiva che stava per giungere. Non
si sapeva ancora se la macchina in fuga era scortata da qualcuno del personale; e solo i
telegrammi successivi delle stazioni di San Pietro in Casale e Castelmaggiore, che
annunziavano il fulmineo passaggio della locomotiva, potevano constatare che su di essi
stava un macchinista e un fuochista. Ma la corsa continuava e la preoccupazione alla
ferrovia cresceva [...]
All'epoca già confluivano alla stazione di Bologna quattro importanti linee ferroviarie e
i binari di stazione erano soltanto cinque. In quell'ora i binari erano ingombri per treni
in arrivo e in partenza Non c'erano sottopassaggi. La inevitabile concisione dei dispacci
telegrafici impedì di comprendere chiaramente la situazione. Per evitare guai maggiori la
locomotiva venne instradata sul binario cosiddetto "2 numeri", un binario tronco
sulla destra, più o meno dove oggi c'è il fabbricato delle Poste. Allora c'erano le
tettoie della gestione merci.
Alle 5,10 [la locomotiva] entrava dal bivio e passava davanti allo scalo,
fischiando disperatamente, con una velocità superiore ai 50 km. Sulla macchina c'era un
uomo che, invece di dare il freno, cercare di fermare, metteva carbone.... Era un uomo che
correva, che voleva correre alla morte! Il personale lungo la linea agitando le braccia,
gridando, gli faceva cenno di fermare, di dare il freno; taluno gli urlò di gettarsi a
terra, ma egli rimaneva imperterrito nella locomotiva. Un esperto macchinista, il Mazzoni,
che era lungo la linea e lo vedeva correre incontro a morte sicura, gli gridò:
"buttati a terra!"; ma il giovanotto - che giovane era lo sciagurato - dalla
banchina a lato della piazza tubolare della caldaia tenendosi alla maniglia di ottone, si
portò sul davanti della locomotiva sotto il fanale di fronte, attaccato sempre alla
maniglia e colla schiena verso la stazione dov'era il pericolo.
La locomotiva (della quale il giornale ci dà anche il numero di matricola: era la 3541)
andò quindi a sbattere contro la vettura di prima classe ed i sei carri merci che si
trovavano in sosta sul binario tronco alla velocità di 50 chilometri orari.
"Al momento dell'urto egli era sulla fronte della macchina e i presenti che lo
videro esterrefatti passare dinanzi a loro affermano che proprio al momento dell'urto egli
si sporse in fuori, volgendo la testa verso la vettura, contro alla quale andava a dar di
cozzo. L'urto, disastroso per la macchina e i carri, fu tremendo per l'uomo. Egli rimase
preso fra la macchina e il vagone di la classe schiacciato orribilmente. Accorsero
funzionari delle ferrovie, di P.S., guardie, personale viaggiante e manovali e il
disgraziato fu tosto riconosciuto. È certo Pietro Rigosi di Bologna, di anni 28,
fuochista da parecchi anni e buon impiegato... a Poggio Renatico, mentre il macchinista
Rimondini Carlo era sceso un momento, il Rigosi aveva sganciato la locomotiva del treno
merci e poi l'aveva lanciata a tutta velocità legando la valvola del fischio, per modo
che destò l'allarme per tutta la corsa. Avrebbe potuto pentirsi durante il tragitto e
dare il freno (che funzionava bene anche dopo la catastrofe) ma egli non volle.
Probabilmente un'improvvisa alterazione di cervello che lo rese crudele contro se stesso,
perché, per quanti pensieri di famiglia egli avesse, non giustificavano certo un
tentativo di suicidio che poteva costare la vita a molte altre persone.
Il fatto ebbe una grande risonanza su tutta la stampa nazionale. Vi fu chi immaginò che
il macchinista avesse letto La bête humaine di Emile Zola, restandone
suggestionato al punto da imitarne le vicende. Altri mossero critiche alle ferrovie per
non aver provveduto ad insabbiare un binario allo scopo di far fermare la locomotiva senza
danni. Un lettore del Resto del Carlino mandò un telegramma al giornale sostenendo che,
inviando incontro alla locomotiva in fuga, una macchina di maggiore potenza, questa
avrebbe potuto, una volta avvistatala, invertire la marcia e frenarne la corsa
gradualmente. Tutti i commenti concordavano sulla imprevedibilità del gesto.
Pietro Rigosi veniva indicato dal giornale come "fuochista da parecchi anni e buon
impiegato". Sposato, padre di due bambine, di tre anni e di dieci mesi. Nessuna
indagine sulle sue condizioni economiche e familiari consentì di capire quali motivi lo
avessero spinto. Qualche debito di importo non rilevante, ma al tempo era abbastanza
frequente, nessuna oscura vicenda personale, nessun dissapore familiare. Sorprendentemente
il nostro uomo non rimase ucciso in quello scontro terribile nel quale aveva cercato
deliberatamente la morte mettendosi fra la locomotiva e la vettura ferma. Evidentemente
l'urto fortissimo lo fece schizzare via prima che i due veicoli si incastrassero l'uno
nell'altro. Gli venne amputata una gamba, il viso rimase deformato dalle cicatrici,
dovette sopportare una lunga degenza all'ospedale, ma dopo circa due mesi fece ritorno a
casa. Inutilmente i giornalisti e i curiosi che gli facevano visita tentarono di
chiedergli i motivi che lo avevano spinto ad un gesto tanto clamoroso. A nessuno venne
risposto: il Rigosi si mantiene abbastanza tranquillo, parla con chi va a fargli visita,
ma si astiene sempre ad accennare alle cause e al movente del suo atto, cambiando discorso
o non rispondendo ogni volta che gli si richiede per quale ragione lanciò la sua macchina
a tutto vapore da Poggio a Bologna e perché cercasse di morire. Un'unica frase, che il
cronista del Carlino riprende da un articolo della Gazzetta Piemontese, sembra gli sia
sfuggita subito dopo il ricovero: "Che importa morire? Meglio morire che essere
legato!"
Un vero personaggio, Pietro Rigosi, fuochista delle Strade Ferrate Meridionali - Rete
Adriatica, matricola 42918. E comprensibile che questo suo atteggiamento, dignitoso e
ribelle insieme, abbia ispirato Francesco Guccini. Abbiamo perciò fatto qualche ricerca
d'archivio per saperne di più. Non era un ferroviere modello. Non tanto perché veniva
spesso punito. Per i ferrovieri dell'esercizio allora ad ogni minimo errore corrispondeva
una sanzione economica. Nel caso di Rigosi Pietro si tratta però di mancanze di
omissione, negligenza, o diverbi con colleghi e superiori. Tutti chiari segni di
affaticamento e insofferenza all'ambiente. Multa di £ 5 per aver risposto "con modo
sconveniente al Capo Deposito di Piacenza mentre questi taceva delle giuste osservazioni
al suo Macchinista". Sospensione per tre giorni dal soldo e dal servizio per essere
"venuto a diverbio col Macch. Baroncini Federico per futili motivi tra Mestre e
Marano. Diede poi luogo ad un deplorevole alterco sotto la tettoia della stazione di
Padova". Tre mesi prima del fatto era stato punito con "sospensione dal soldo e
dal servizio per giorni tre per aver preso in mala parte una frase detta per ischerzo da
un macchinista del Deposito di Milano e non a lui rivolta, provocando così un diverbio,
seguito da vie di fatto in stazione di Piacenza". Ma numerose sono le multe per
mancata presentazione al treno. "Mancò alla partenza dal treno 1008 del 7 agosto
sebbene avvisato il giorno prima e avanti alla partenza dallo svegliatore". Erano
mancanze che costavano care: dalle 3 alle 5 lire quando la paga giornaliera era di 2 lire
e 50. Alcune multe riguardavano mancanze oggi incomprensibili: venne trovato coricato
nelle brande del dormitorio senza le prescritte lenzuola. I dormitori dotati di docce
erano rarissimi e i macchinisti erano costretti a ripulirsi molto sommariamente prima di
coricarsi. L'uso delle lenzuola da parte dei ferrovieri si rendeva quindi obbligatorio per
evitare che venissero insudiciate le brande.
C'è una vasta letteratura sulle pesanti condizioni di lavoro dei ferrovieri, in
particolare dei macchinisti, alla fine del secolo scorso. Turni ininterrotti fino a trenta
e anche quaranta ore consecutive, esposizione alle intemperie su macchine non di rado
senza alcun riparo o con ripari che risultavano del tutto insufficienti, disciplina di
tipo prussiano, tutto questo aggiunto ad un mestiere già duro: ricordiamo che una corsa
da Venezia a Bologna significava per il fuochista spalare quaranta quintali di carbone.
Non stupisce quindi che la mortalità nella categoria fosse tanto alta che non più del
10% dei macchinisti arrivava alla pensione. Forse fu tutto questo a spingere il nostro
alla corsa forsennata verso Bologna. Anche se non volle mai dirlo pubblicamente ci doveva
essere un rancore profondo in Pietro Rigosi verso la Società delle Strade Ferrate.
Qualche tempo dopo essere stato dimesso dall'ospedale, venne "esonerato dal servizio
per motivi di salute". Il Consorzio di Mutuo Soccorso gli liquidò un sussidio di
lire 308,13 e la Direzione delle Ferrovie ne dispose un secondo "a solo titolo di
commiserazione, di £ 150, pari a due mesi della paga che percepiva". Al momento di
ritirare il sussidio Pietro Rigosi si avvide che sul ruolo di pagamento, che avrebbe
dovuto firmare per ricevuta, stava la scritta come motivazione "buona uscita".
Tanto bastò per fargli rifiutare quella cifra di cui doveva avere certamente un gran
bisogno. Evidentemente nessuno doveva pensare che la sua uscita dalle ferrovie fosse
avvenuta in bontà di rapporti. Accettò la somma solamente dopo che la motivazione di
buona uscita venne sostituita con 'per elargizione'. Anche l'atteggiamento della
severissima Società delle Strade Ferrate Meridionali fu, nell'occasione, stranamente
indulgente. Il fatto aveva provocato danni notevoli, tanto da venire citato nella
relazione annuale agli azionisti fra le cause che avevano limitato l'ammontare degli utili
corrisposti. Nessuna punizione per il ferroviere responsabile. Esonero per motivi di
salute, invece del licenziamento, e corresponsione di un sussidio non certo elevato, ma
certamente non dovuto. L'ipotesi della follia esonerava dalla necessità di approfondire
le cause e, con i pazzi e i fanciulli, è sempre opportuna la clemenza.
Per gli appassionati di cose ferroviarie, due parole sulla locomotiva protagonista della
vicenda. La 3541 faceva parte di una serie di 130 unità comprese nel gruppo 350 RA, che
dal 1905 divenne Gr 270 PS. Poiché tutte le macchine, dapprima numerate 3501-3630 RA,
divennero poi 2701-2830 FS ed infine 270.001-270.130 (sempre FS ma numerazione
definitiva), si può dedurre che la nostra 3541 RA sia stata riparata e poi messa in
servizio e, dopo il 1905 è probabile che abbia assunto la numerazione provvisoria di
2741, e definitiva 270.041 FS. Tre assi accoppiati, lunghezza di 15 metri per 43
tonnellate di peso, potenza 440 CV, velocità massima 60 km/ora, del tipo cosiddetto
bourbonnais, un modello che trovò in Italia grande impiego per le sue doti di
adattabilità ai percorsi tortuosi e con modesti carichi assiali. Si trattava di una
modesta macchina, destinata prevalentemente al traino dei treni merci e omnibus nelle
linee pianeggianti, che conobbe il suo momento di gloria durante la Prima Guerra Mondiale
e fu mantenuta in attività fino alla seconda metà degli anni '20. |