CANZONE
PER UN'AMICA
Lunga e diritta correva la strada, l'auto veloce correva
la dolce estate era già cominciata vicino lui sorrideva,
vicino lui sorrideva...
Forte la mano teneva il volante, forte il motore cantava,
non lo sapevi che c'era la morte quel giorno che ti aspettava,
quel giorno che ti aspettava...
Non lo sapevi che c'era la morte, quando si è giovani è strano
poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano,
venga e ci prenda per mano...
Non lo sapevi, ma cosa hai sentito quando la strada è impazzita,
quando la macchina è uscita di lato e sopra un'altra è finita,
e sopra un'altra è finita...
Non lo sapevi, ma cosa hai pensato quando lo schianto ti ha uccisa,
quando anche il cielo di sopra è crollato, quando la vita è fuggita,
quando la vita è fuggita...
Dopo il silenzio soltanto è regnato tra le lamiere contorte:
sull'autostrada cercavi la vita, ma ti ha incontrato la morte,
ma ti ha incontrato la morte...
Vorrei sapere a che cosa è servito vivere, amare, soffrire,
spendere tutti i tuoi giorni passati se così presto hai dovuto partire,
se presto hai dovuto partire...
Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi,
voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi
e che come allora sorridi..
CANZONE PER SILVIA
Il cielo dell' America son mille cieli sopra a un continente,
il cielo della Florida è uno straccio che è bagnato di celeste,
ma il cielo là in prigione non è cielo, è un qualche cosa che riveste
il giorno e il giorno dopo e un altro ancora sempre dello stesso niente.
E fuori c'è una strada all' infinito, lunga come la speranza,
e attorno c'è un villaggio sfilacciato, motel, chiese, case, aiuole,
paludi dove un tempo ormai lontano dominava il Seminole,
ma attorno alla prigione c'è un deserto dove spesso il vento danza.
Son tanti gli anni fatti e tanti in più che sono ancora da passare,
in giorni e giorni e giorni che fan mesi che fan anni ed anni amari;
a Silvia là in prigione cosa resta? Non le resta che guardare
l' America negli occhi, sorridendo coi suoi limpidi occhi chiari...
Già, l' America è grandiosa ed è potente, tutto e niente, il bene e il male,
città coi grattacieli e con gli slum e nostalgia di un grande ieri,
tecnologia avanzata e all' orizzonte l' orizzonte dei pionieri,
ma a volte l' orizzonte ha solamente una prigione federale.
L' America è una statua che ti accoglie e simboleggia, bianca e pura,
la libertà, e dall' alto fiera abbraccia tutta quanta la nazione,
per Silvia questa statua simboleggia solamente la prigione
perchè di questa piccola italiana ora l' America ha paura.
Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare,
paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera.
Nazione di bigotti! Ora vi chiedo di lasciarla ritornare
perchè non è possibile rinchiudere le idee in una galera...
Il cielo dell' America son mille cieli sopra a un continente,
ma il cielo là rinchiusi non esiste, è solo un dubbio o un' intuizione;
mi chiedo se ci sono idee per cui valga restare là in prigione
e Silvia non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente.
Mi chiedo cosa pensi alla mattina nel trovarsi il sole accanto
o come fa a scacciare fra quei muri la sua grande nostalgia
o quando un acquazzone all' improvviso spezza la monotonia,
mi chiedo cosa faccia adesso Silvia mentre io qui piano la canto...
Mi chiedo ma non riesco a immaginarlo: penso a questa donna forte
che ancora lotta e spera perchè sa che adesso non sarà più sola.
La vedo con la sua maglietta addosso con su scritte le parole
"che sempre l' ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte",
"che sempre l' ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte",
"che sempre l' ignoranza fa paura... ed il silenzio è uguale a morte"
QUELLO CHE NON
La vedi nel cielo quell' alta pressione, la senti una strana stagione?
Ma a notte la nebbia ti dice d' un fiato che il dio dell' inverno è arrivato.
Lo senti un aereo che porta lontano? Lo senti quel suono di un piano,
di un Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova?
Lo senti il perchè di cortili bagnati, di auto a morire nei prati,
la pallida linea di vecchie ferite, di lettere ormai non spedite?
Lo vedi il rumore di favole spente? Lo sai che non siamo più niente?
Non siamo un aereo né un piano stonato, stagione, cortile od un prato...
Conosci l' odore di strade deserte che portano a vecchie scoperte,
e a nafta, telai, ciminiere corrose, a periferie misteriose,
e a rotaie implacabili per nessun dove, a letti, a brandine, ad alcove?
Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili di un' ex terza classe?
L' angoscia che dà una pianura infinita? Hai voglia di me e della vita,
di un giorno qualunque, di una sponda brulla? Lo sai che non siamo più nulla?
Non siamo una strada né malinconia, un treno o una periferia,
non siamo scoperta né sponda sfiorita, non siamo né un giorno né vita...
Non siamo la polvere di un angolo tetro, né un sasso tirato in un vetro,
lo schiocco del sole in un campo di grano, non siamo, non siamo, non siamo...
Si fa a strisce il cielo e quell' alta pressione è un film di seconda visione,
è l' urlo di sempre che dice pian piano:
"Non siamo, non siamo, non siamo..."
IL VECCHIO E IL BAMBINO
Un vecchio e un bambino si preser per mano
e andarono insieme incontro alla sera;
la polvere rossa si alzava lontano
e il sole brillava di luce non vera...
L' immensa pianura sembrava arrivare
fin dove l'occhio di un uomo poteva guardare
e tutto d' intorno non c'era nessuno:
solo il tetro contorno di torri di fumo...
I due camminavano, il giorno cadeva,
il vecchio parlava e piano piangeva:
con l' anima assente, con gli occhi bagnati,
seguiva il ricordo di miti passati...
I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,
non sanno distinguere il vero dai sogni,
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero...
E il vecchio diceva, guardando lontano:
"Immagina questo coperto di grano,
immagina i frutti e immagina i fiori
e pensa alle voci e pensa ai colori
e in questa pianura, fin dove si perde,
crescevano gli alberi e tutto era verde,
cadeva la pioggia, segnavano i soli
il ritmo dell' uomo e delle stagioni..."
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
"Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"
QUATTRO STRACCI
E guardo fuori dalla finestra e vedo quel muro solito che tu sai,
sigaretta o penna nella mia destra, simboli frivoli che non hai amato mai;
quello che ho addosso non ti è mai piaciuto, racconto e dico e ti sembro muto,
fumare e scrivere ti suona strano, meglio le mani di un artigiano
e cancellarmi è tutto quel che fai; ma io sono fiero del mio sognare,
di questo eterno mio incespicare e rido in faccia a quello che cerchi e che mai avrai.
Non sai che ci vuole scienza, ci vuol costanza, ad invecchiare senza maturità;
ma maturo o meno io ne ho abbastanza della complessa tua semplicità;
ma poi chi ha detto che tu abbia ragione, coi tuoi also sprach di maturazione
o è un'illusione pronta per l'uso, da eterna vittima d'un sopruso,
abuso d'un mondo chiuso e fatalità; ognuno vada dove vuole andare,
ognuno invecchi come gli pare,ma non raccontare a me che cos'è la libertà.
La libertà delle tue pozioni, di yoga, di erbe, psiche e di omeopatia,
di manuali contro le frustrazioni, le inibizioni che provavi qui a casa mia,
la noia data da uno non pratico, che non ha il polso di un matematico,
che coi motori non ci sa fare e che non sa neanche guidare,
un tipo perso dietro le nuvole e la poesia; ma ora scommetto che vorrai provare
quel che con me non volevi fare: fare l'amore, tirare tardi, o la fantasia.
La fantasia può portare male se non si conosce bene come domarla,
ma costa poco, val quel che vale, e nessuno ti può più impedire di adoperarla;
io se dio vuole non son tuo padre, non ho nemmeno le palle quadre,
tu hai la fantasia delle idee contorte, vai con la mente e le gambe corte
poi avrai sempre il momento giusto per sistemarla;
le vie del mondo ti sono aperte, tanto hai le spalle sempre coperte
ed avrai sempre le scuse buone per rifiutarla.
Per rifiutare sei stata un genio, sprecando il tempo a rifiutare me,
ma non c'è un alibi, non c'è rimedio, se guardo bene no, non c'è un perché;
nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d'esser puttana,
quando sei dentro vuoi esser fuori cercando sempre i passati amori
ed hai annullato tutti fuori che te, ma io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri,
quei quattro stracci in cui hai buttato l'ieri, persa a cercar per sempre quello che non
c'è.
CYRANO
Venite pure avanti, voi con il naso corto,
signori imbellettati, io più non vi sopporto!
Infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio
perché con questa spada vi uccido quando voglio.
Venite pure avanti poeti sgangherati,
inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni che campate di versi senza forza,
avrete soldi e gloria ma non avete scorza;
godetevi il successo, godete finché dura,
ché il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura,
e andate chissà dove per non pagar le tasse,
col ghigno e l'ignoranza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna
però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L'arrivismo? All'amo non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco.
Facciamola finita, venite tutti avanti,
nuovi protagonisti, politici rampanti;
venite portaborse, ruffiani e mezze calze,
feroci conduttori di trasmissioni false,
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte;
coraggio liberisti, buttate giù le carte,
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese
in questo benedetto assurdo bel Paese.
Non me ne frega niente se anch'io sono sbagliato,
spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco.
Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz'ora da sempre mi precede
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore;
non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d'essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo,
ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo ma sono triste,
perché Rossana è bella, siamo così diversi;
a parlarle non riesco, le parlerò coi versi.
Venite gente vuota, facciamola finita:
voi preti che vendete a tutti un'altra vita;
se c'è come voi dite un Dio nell'infinito
guardatevi nel cuore, l'avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso
che Dio è morto e l'uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti,
per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco.
Io tocco i miei nemici col naso e con la spada
ma in questa vita oggi non trovo più la strada,
non voglio rassegnarmi ad essere cattivo
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo;
dev'esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un'ombra e tu, Rossana, il sole;
ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perché ormai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo Cirano.
VENEZIA
Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi,
Venezia la vende ai turisti
che cercano in mezzo alla gente l'Europa o l'Oriente,
che guardano alzarsi alla sera il fumo o la rabbia di Porto Marghera.
Stefania era bella, Stefania non stava mai male,
ma è morta di parto gridando in un letto sudato di un grande ospedale.
Aveva vent'anni, un marito, e l'anello nel dito;
mi han detto confusi i parenti che quasi il respiro inciampava nei denti.
Venezia è un albergo, San Marco è senz'altro anche il nome di una pizzeria,
la gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra.
Stefania d'estate giocava con me nelle vuote domeniche d'ozio.
Mia madre parlava, sua madre vendeva Venezia in negozio.
Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare,
però non ti puoi risvegliare con l'acqua alla gola,
e un dolore al livello del mare.
Il Doge ha cambiato di casa, e per mille finestre c'è solo
il vagito di un bimbo che è nato, c'è solo la sirena di Mestre.
Stefania affondando, Stefania ha lasciato qualcosa:
Novella Duemila e una rosa sul suo comodino,
Stefania ha lasciato un bambino.
Non so se ai parenti gli ha fatto davvero del male,
vederla morire ammazzata,
morire da sola in un grande ospedale.
Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità,
del resto del mondo non sai più una sega,
Venezia è la gente che se ne frega.
Stefania è un bambino, comprare o smerciare Venezia sarà il suo destino,
può darsi che un giorno saremo contenti di esserne solo lontani parenti.
BOLOGNA
Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po' molli,
col seno sul piano padano ed il culo sui colli.
Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale,
Bologna la grassa e l'umana, già un poco Romagna e in odor di Toscana.
Bologna per me provinciale Parigi minore,
mercati all'aperto, bistrots, della "rive gauche" l'odore,
con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l'assenzio cantava
ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure ancillare.
Però che bohème confortevole, giocata fra casa e osterie,
quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie.
Oh, quanto eravamo poetici, ma senza pudore o paura
e i vecchi "imbariaghi" sembravano la letteratura.
Oh, quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore o vergogna,
cullati fra i portici-cosce di mamma Bologna.
Bologna è una donna emiliana di zigomo forte,
Bologna capace d'amore, capace di morte,
che sa quel che conta e che vale, che sa dov'è il sugo del sale,
che calcola il giusto la vita, e che sa stare in piedi per quanto colpita.
Bologna è una ricca signora che fu contadina,
benessere, ville, gioielli e salami in vetrina,
che sa che l'odor di miseria da mandare giù è cosa seria
e vuole sentirsi sicura con quello che ha addosso, perché sa la paura.
Lo sprechi il tuo odor di benessere però con lo strano binomio
dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio
e i tuoi bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi,
confusi e legati a migliaia di mondi diversi?
ma quante parole ti cantano, cullando i cliché della gente
cantando canzoni che è come cantare di niente.
Bologna è una strana signora, volgare e matrona,
Bologna bambina per bene, Bologna busona,
Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto,
rimorso per quel che m'hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato.
CANZONE QUASI D'AMORE
Non starò più a cercare parole che non trovo per dirti cose vecchie con il vestito
nuovo,
per raccontarti il vuoto che, al solito, ho di dentro e partorire il topo vivendo sui
ricordi, giocando coi miei giorni, col tempo.
O forse vuoi che dica che ho i capelli più corti, o che per le mie navi son quasi chiusi
i porti,
io parlo sempre tanto ma non ho ancora fedi, non voglio menar vanto di me o della mia
vita, costretta come dita dei piedi.
Queste cose le sai, perché siam tutti uguali, e moriamo ogni giorno dei medesimi mali,
perché siam tutti soli ed è nostro destino tentare goffi voli d'azione o di parola,
volando come vola il tacchino.
Non posso farci niente e tu puoi fare meno, sono vecchio d'orgoglio,
mi commuove il tuo seno,
e di questa parola io quasi mi vergogno ma c'è una vita sola: non ne sprechiamo niente in
tributi alla gente o al sogno.
Le sere sono uguali ma ogni sera è diversa e quasi non ti accorgi dell'energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato vestendo abiti lisi buoni ad ogni evenienza,
inseguendo la scienza o il peccato.
Tutto questo lo sai e sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in
provincia,
perché siam tutti uguali: siamo cattivi, buoni, e abbiam gli stessi mali: siamo
vigliacchi e fieri, saggi, falsi, sinceri, coglioni.
Ma dove te ne andrai? Ma dove sei già andata? Ti dono, se vorrai, questa noia già usata:
tienila in mia memoria, ma non è un capitale, ti accorgerai da sola, nemmeno dopo tanto,
che la noia di un altro, non vale.
D'altra parte, lo vedi: scrivo ancora canzoni e pago la mia casa, pago le mie illusioni,
fingo d'aver capito che vivere è incontrarsi, aver sonno, appetito, far dei figli,
mangiare, bere, leggere, amare, grattarsi.
VIA PAOLO FABBRI 43
Fra "krapfen" e "boiate" le ore strane son volate,
grasso l'autobus m'insegue lungo il viale.
E l'alba è un pugno in faccia verso cui tendo le braccia,
scoppia il mondo fuori porta San Vitale.
E in via Petroni si svegliano, preparano libri e caffè,
e io danzo con Snoopy e con Linus un tango argentino col casqué.
Se fossi più gatto, se fossi un po' più vagabondo,
vedrei in questo sole, vedrei dentro l'alba e nel mondo,
ma c'è da sporcarsi il vestito e c'è da sgualcire il gilè,
che mamma mi trovi pulito qui all'alba in via Fabbri 43!
I genii musicali preannunciati dai giornali hanno officiato
e i sacri versi hanno cantati,
le elettriche impazziscono, sogni e malattie guariscono,
son poeti, santi, taumaturghi e vati.
Con gioia e tremore li seguo dal fondo della mia città,
poi chiusa la soglia do sfogo alla mia turpe voglia: ascolto Bach!
Se solo affrontassi la mia vita come la morte
avrei clown, giannizzeri, nani a stupir la tua corte,
ma voci imperiose mi chiamano e devo tornare perché
ho un posto da vecchio giullare qui in via Paolo Fabbri 43.
Gli arguti intellettuali trancian pezzi e manuali,
poi stremati fanno cure di cinismo,
son pallidi nei visi e hanno deboli sorrisi
solo se si parla di strutturalismo.
In fondo mi sono simpatici,
da quando ho incontrato Descartes,
ma pensa se le canzonette me le recensisse Ronald Barthes.
Se fossi accademico, fossi maestro o dottore
ti insignirei in toga di 15 lauree ad honorem,
ma a scuola ero scarso in latino
e il pop non è fatto per me,
ti diplomerò in canti e in vino qui in via Paolo Fabbri 43.
Jorge Luis Borges mi ha promesso l'altra notte
di parlar personalmente col "persiano",
ma il cielo dei poeti è un po' affollato in questi tempi,
forse avrò un posto da usciere o da scrivano.
Dovrò lucidare i suoi specchi,
trascriver quartine a Kayyam,
ma un lauro, (da genio minore) per me, sul suo onore, non mancherà.
Se avessi coraggio, se aprissi del tutto le porte,
farei fuochi greci e girandole per la tua fronte,
ma sai cos'io pensi del tempo, e lui cosa pensa di me:
sii saggia come io son contento qui in via Paolo Fabbri 43.
La piccola infelice si è incontrata con Alice
ad un summit per il canto popolare.
Marinella non c'era, fa la vita in balera,
ed ha altro per la testa a cui pensare.
Ma i miei ubriachi non cambiano,
soltanto ora bevon di più,
e "il frate" non certo la smette per fare lo speaker in TV.
Se fossi poeta, se fossi più bravo e più bello
avrei nastri e gale francesi per il tuo cappello,
ma anche i miei eroi sono poveri,
si chiedono troppi perché,
già sbronzi al mattino mi svegliano urlando in via Fabbri 43.
Gli eroi su Kawasaki coi maglioni colorati
van scialando sulle strade bionde e fretta.
Personalmente austero vesto in blu perché odio il nero
e ho paura anche di andare in bicicletta.
Scartato alla leva del jet-set,
non piango, ma compro le Clark,
se devo emigrare in America come mio nonno prendo il tram.
Se tutto mi uscisse, se aprissi del tutto i cancelli
farei con parole ghirlande da ornarti i capelli!
Ma madri e morali mi chiudono, ritorno a giocare da me,
do un party, con gatti e poeti, qui all'alba in via Fabbri 43.
AUTOGRILL
La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up,
e il sorriso da fossette e denti era da pubblicità,
come i visi alle pareti di quel piccolo autogrill,
mentre i sogni miei segreti li rombavano via i TIR.
Bella, d'una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria,
quasi triste, come i fiori e l'erba di scarpata ferroviaria;
il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere,
che tracciavo con un dito dentro ai cerchi del bicchiere.
Basso il sole all'orizzonte colorava la vetrina
e stampava lampi e impronte sulla pompa da benzina;
lei specchiò alla soda-fountain quel suo viso da bambina
ed io sentivo un'infelicità vicina.
Vergognandomi, ma solo un poco appena, misi un disco nel juke-box
per sentirmi quasi in una scena di un film vecchio della Fox,
ma per non gettarle in faccia qualche inutile cliché
picchiettavo un indù in latta di una scatola di tè.
Ma nel gioco avrei dovuto dirle: "Senti, senti io ti vorrei parlare...",
poi prendendo la sua mano sopra al banco: "Non so come cominciare,
non la vedi, non la tocchi oggi la malinconia,
non lascianmo che trabocchi: vieni, andiamo, andiamo via."
Terminò in un cigoilo il mio disco d'atmosfera,
si sentì uno sgocciolio in quell'aria al neon e pesa,
sovrastò l'acciottolio quella mia frase sospesa,
ed io... ma poi arrivò una coppia di sorpresa.
E in un attimo, ma come accade spesso, cambiò il volto d'ogni cosa,
cancellatrono di colpo ogni riflesso le tendine in nylon rosa,
mi chiamò la strada bianca, "Quant'è?" chiesi, e la pagai,
le lasciai un nickel di mancia, presi il resto e me ne andai.
L'ISOLA NON TROVATA
Ma bella più di tutte è l'isola non trovata,
Quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino il Re del Portogallo
con firma sugellata e bulla del pontefice in gotico Latino.
Il Re di Spagna fece vela cercando l'isola incantata,
però quell'isola non c'era, e mai nessuno l'ha trovata.
Svanì di prua dalla galea, come un'idea;
come una splendida utopia è andata via e non tornerà mai più.
Le antiche carte dei corsari portano un segno misterioso,
ne parlan piano i marinari con un timor superstizioso.
Nessuno sa se c'è davvero od è un pensiero;
se a volte il vento ne ha il profumo è come il fumo che non prendi mai!
Appare a volte avvolta di foschia, magica e bella,
ma se il pilota avanza, su mari misteriosi è già volata via,
tingendosi d'azzurro, color di lontananza.
Il Re di Spagna fece vela cercando l'isola incantata.
ASIA
Fra i fiori tropicali, fra grida di dolcezza, la lenta, lieve brezza scivolava.
E piano poi portava, fischiando fra la rete, l'odore delle sete e della spezia.
Leone di Venezia, Leone di San Marco, l'arma cristiana è al varco dell'Oriente:
ai porti di ponente il mare ti ha portato i carichi di avorio e di broccato.
Le vesti dei mercanti trasudano di ori, tesori immani portano le stive;
si affacciano alle rive le colorate vele, fragranti di garofano e di pepe.
Trasudano le schiene schiantate dal lavoro, son per la terra mirra, l'oro e l'incenso.
Sembra che sia nel vento, su fra la palma somma, il grido del sudore e della gomma.
E l'asia par che dorma, ma sta sospesa in aria l'immensa, millenaria sua cultura:
i bianchi e la natura non possono schiacciare i Buddha, i Chela, gli uomini ed il mare.
Leone di San Marco, leone del profeta, ad est di Creta corre il tuo vangelo;
si staglia contro il cielo il tuo simbolo strano: la spada e non il libro hai nella mano.
Terra di meraviglie, terra di grazie e mali, di mitici animali da bestiario;
s'arriva dai santuari, fin sopra all'alta plancia, il fumo della gangia e dell'incenso.
E quel profumo intenso è rotta di gabbiani, segno di vani simboli divini.
E gli uccelli marini additano col volo la strada del Catai per Marco Polo
UN ALTRO GIORNO E' ANDATO
E un altro giorno è andato, la sua musica ha finito,
quanto tempo è ormai passato e passerà!
Le orchestre di motori ne accompagnano i sospiri,
l'oggi dove è andato l'ieri se ne andrà.
Se guardi nelle tasche della sera ritrovi le ore che conosci già,
ma il riso dei minuti cambia in pianto ormai e il tempo andato non ritroverai.
Giornate senza senso, come un mare senza vento,
come perle di collane di tristezza;
Le porte dell'estate dall'inverno son bagnate,
fugge un cane come la tua giovinezza.
Negli angoli di casa cerchi il mondo, nei libri e nei poeti cerchi te,
ma il tuo poeta muore e l'alba non vedrà e dove corra il tempo chi lo sa?
Nel sole dei cortili i tuoi fantasmi giovanili
corron dietro a delle silvie beffeggianti:
si è spenta la fontana, si è ossidata la campana,
perché adesso ridi al gioco degli amanti?
Sei pronto per gettarti sulle strade, l'inutile bagaglio è dentro in te,
ma temi il sole e l'acqua prima o poi cadrà e il tempo andato non ritornerà.
Professionisti acuti fra i sorrisi ed i saluti
ironizzano i tuoi dubbi sulla vita.
Le madri dei tuoi amori sognan trepide dottori,
ti rinfacciano una crisi non chiarita.
La sfera di cristallo si è offuscata, e l'aquilone tuo non vola più.
Nemmeno il dubbio resta nei pensieri tuoi e il tempo passa e fermalo se puoi.
Se i giorni ti han chiamato tu hai risposto da svogliato,
il sorriso degli sepcchi è già finito.
Nei vicoli e sui muri quel buffone che tu eri è rimasto solo a pianger divertito.
Nel seme al vento afferri la fortuna, al rosso saggio chiedi i tuoi perché,
vorresti alzarti in cielo a urlare chi sei tu, ma il tempo passa e non ritorna più.
E un altro giorno è andato, la sua musica ha finito,
quanto tempo è ormai passato e passerà!
Tu canti nella strada frasi a cui nessuno bada,
il domani come tutto se ne andrà.
Ti guardi nelle mani e stringi il vuoto: se guardi nelle tasche troverai
gli spiccioli che ieri non avevi ma il tempo andato non ritornerà.
ESKIMO
Questa domenica in Settembre non sarebbe pesata così;
l'estate finiva più nature vent'anni fa o giù di lì.
Con l'incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci in tasca l'Unità,
la paghi tutta, e a prezzi d'inflazione, quella che chiaman la maturità.
Ma tu non sei cambiata di molto, anche se adesso è al vento quello che
io per vederlo ci ho impiegato tanto filosofando pure sui perché.
Ma tu non sei cambiata di tanto e se cos'è un orgasmo ora lo sai
potrai capire i miei vent'anni allora? E i quasi cento adesso capirai?
Portavo allora un eskimo innocente dettato solo dalla povertà:
non era la rivolta permanente, diciamo che non c'era e tanto fa;
portavo una coscienza immacolata che tu tendevi a uccidere però
inutilmente ti ci sei provata con foto di famiglia o paletò.
E quanto son cambiato da allora e l'eskimo che conoscevi tu
lo porta addosso mio fratello ancora e tu lo porteresti e non puoi più.
Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà:
tu giri adesso con le tette al vento, io ci giravo già vent'anni fa.
Ricordi? Fui con te a Santa Lucia, al portico dei Servi per Natale:
credevo che Bologna fosse mia, ballammo assieme all'anno o a Carnevale.
Lasciammo allora tutti e due un qualcuno che non ne fece un dramma o non lo so
ma con i miei maglioni ero a disagio e mi pesava quel tuo paletò,
ma avevo la rivolta fra le dita, dei soldi in tasca niente e tu lo sai
e mi pagavi il cinema stupita e non ti era toccato farlo mai.
Perché mi amavi non l'ho mai capito, così diverso da quei tuoi cliché;
perché fra i tanti, bella, che hai colpito ti sei gettata addosso proprio a me?
Infatti i fiori della prima volta non c'erano già più nel '68:
scoppiava finalmente la rivolta, oppure in qualche modo mi ero rotto;
tu li aspettavi ancora ma io già urlavo che Dio era morto, a monte, ma però
contro il sistema anch'io mi ribellavo... cioè, sognando Dylan e i provos,
e Gianni ritornato da Londra a lungo ci parlò dell'LSD:
tenne una quasi conferenza colta sul suo viaggio di nozze stile freak.
E noi non l'avevamo mai fatto, e noi che non l'avremmo fatto mai
quell'erba ci cresceva tutt'attorno, per noi crescevan solo i nostri guai.
Forse ci consolava far l'amore ma precari in quel senso si era già:
un buco da un amico, un letto a ore su cui passava tutta la città.
L'amore fatto alla boia d'un Giuda e al freddo in quella stanza di altri e spoglia:
vederti o non vederti tutta nuda era un fatto di clima e non di voglia.
E adesso che potremmo anche farlo, e adesso che problemi non ne ho...
che nostalgia per quelli contro un muro o dentro a un cine o là dove si può,
e adesso che sappiamo quasi tutto, e adesso che problemi non ne hai,
per nostalgia lo rifaremmo in piedi scordando la moquette stile e l'Hi-Fi.
Diciamolo per dire, ma davvero, si ride per non piangere perché
se penso a quella ch'eri, a quel che ero, che compassione che ho per me e per te.
Eppure a volte non mi spiacerebbe essere quelli di quei tempi là.
Sarà per aver quindici anni in meno o avere tutto per possibilità
perché a vent'anni è tutto ancora intero, perché a vent'anni è tutto chi lo sa.
A vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età.
Oppure allora si era solo noi, non c'entra o meno questa gioventù
di discussioni, caroselli, eroi: quel ch'è rimasto dimmelo un po' tu.
E questa domenica in Settembre se ne sta lentamente per finire
come le tante, via, distrattamente a cercare di fare o di capire.
Forse lo stan pensando anche gli amici: gli andati, i rassegnati, i soddisfatti,
giocando a dire che si era più felici, pensando a chi s'è perso o no a quei party,
ed io che ho sempre un eskimo addosso uguale a quello che ricorderai,
io come sempre, faccio quel che posso; domani poi ci penserò se mai.
Ed io ti canterò questa canzone uguale a tante che già ti cantai:
ignorala come hai ignorato le altre, e poi saran le ultime oramai...
AUSCHWITZ
Son morto con altri cento, son morto ch'ero bambino:
passato per il camino, e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz c'era la neve: il fumo saliva lento
nel freddo giorno d'inverno e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio;
è strano: non riesco ancora a sorridere qui nel vento.
Io chiedo come può l'uomo uccidere un suo fratello,
eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento.
Ancora tuona il cannone, ancora non è contento
di sangue la belva umana, e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà che l'uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare, e il vento si poserà.
CANZONE DELLE OSTERIE DI FUORI PORTA
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta
ma la gente che che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta.
Qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore
e insegue una maturità: si è sposato,
fa carriera ed è una morte un po' peggiore.
Cadon come foglie o gli ubriachi sulle strade che hanno scelto,
delle rabbie antiche non rimane che una frase o qualche gesto.
Non so se scusano il passato, per giovinezza o per errore,
non so se ancora desto in loro, se m'incontrano per forza,
la curiosità o il timore.
Io ora mi alzo tardi tutti i giorni, tiro sempre a far mattino,
le carte poi il caffè della stazione per neutralizzare il vino;
ma non ho scuse da portare, non dico più d'esser poeta,
non ho utopie da realizzare,
stare a letto il giorno dopo è forse l'unica mia meta.
Si alza sempre lenta come un tempo l'alba magica in collina,
ma non provo più quando la guardo quello che provavo prima,
ladri e profeti di futuro mi hanno portato via parecchio,
il giorno è sempre un po' più oscuro,
sarà forse perché è storia, sarà forse perchè invecchio.
Ma le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte,
son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte.
Dimmi se son da lapidare, se mi nascondo sempre più,
ma ognuno ha la sua pietra pronta e la prima,
non negare, me la tireresti tu.
Sono più famoso che in quel tempo quando tu mi conoscevi,
non più amici, e un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi,
e forse ridono di me, ma in fondo la coscienza pura,
non rider tu se dico questo,
ride chi ha nel cuore l'odio e nella mente la paura.
Ma non devi credere che questo abbia cambiato la mia vita;
è una cosa piccola, di ieri, che domani è già finita,
son sempre qui a vivermi addosso, ho dai miei giorni quanto basta,
ho dalla gloria quel che posso,
cioè qualcosa che andrà presto quasi come i soldi in tasca.
Non lo crederesti: ho quasi chiuso tutti gli usci all'avventura,
non perché metterò la testa a posto, ma per noia o per paura.
Non passo notti disperate, su quel che ho fatto o quel che ho avuto;
le cose andate sono andate
ed ho per unico rimorso le occasioni che ho perduto.
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta,
ma la gente che che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta.
Qualcuno è andato per formarsi, chi per seguire la ragione,
chi perché stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi,
ed è una morte un po' peggiore.
FAREWELL
E sorridevi, e sapevi sorridere,
coi tuoi vent'anni portati così,
come si porta un maglione sformato su un paio di jeans;
come si sente la voglia di vivere
che scoppia un giorno e non spieghi il perché:
un pensiero cullato o un amore che è nato e non sai che cos'è.
Giorni lunghi tra ieri e domani, giorni strani,
giorni a chiedersi tutto cos'era, vedersi ogni sera;
ogni sera passare su a prenderti
con quel mio buffo montone orientale,
ogni sera là, a passo di danza, salire le scale
e sentire i tuoi passi che arrivano,
il ticchettare del tuo buonumore,
quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.
Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova,
era tanto potere parlarci, giocare a guardarci,
fra gli amici che ridono e suonano,
attorno ai tavoli pieni di vino,
religione del tirare tardi e aspettare mattino;
e una notte lasciasti portarti via,
solo la nebbia e noi due in sentinella,
la città addormentata non era mai stata così tanto bella.
Era facile vivere allora, ogni ora,
chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci,
e ogni notte inventarsi una fantasia,
da bravi figli dell'epoca nuova,
ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova.
Ma stupiti e felici scoprimmo che
era nato qualcosa più in fondo,
ci sembrava di avere trovato la chiave segreta del mondo.
Non fu facile volersi bene, restare assieme
o pensare d'avere un domani, restare lontani;
tutti e due a immaginarsi: "Con chi sarà?"
In ogni cosa un pensiero costante,
un ricordo lucente e durissimo, come il diamante,
e a ogni passo lasciare portarci via
da un'emozione non piena, non colta:
rivedersi era come rinascere ancora una volta.
Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione,
e il peccato fu creder speciale una storia normale.
Ora il tempo ci usura e ci stritola
in ogni giorno che passa correndo,
sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo.
E davvero non siamo più quegli eroi
pronti assieme ad affrontare ogni impresa;
siamo come due foglie aggrappate ad un ramo in attesa.
"The triangle tingles and the trumpet plays slow"...
Farewell, non pensarci e perdonami
se ti ho portato via un poco d'estate
con qualcosa di fragile come le storie passate.
Forse un tempo poteva commuoverti
ma ora è inutile, credo, perché
ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me
INCONTRO
E correndo mi incontrò lungo le scale: quasi nulla mi sembrò cambiato in lei.
La tristezza poi ci avvolse come miele, per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già, rosseggiava la città,
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda;
come un istante "déja vu", ombra della gioventù, ci circondava la nebbia.
Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi.
Dieci anni da narrare l'uno all'altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi.
"Cosa fai ora, ti ricordi, eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto, è un anno, mi han detto che eri ancor via".
Poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia.
E le frasi quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi.
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste,
la mia America e la sua, diventate nella via la nostra città tanto triste.
Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accese forse per noi lì,
ed infine in breve la sua situazione, uguale quasi a tanti nostri film:
come in un libro scritto male lui s'era ucciso per natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio.
Povera amica che narravi dieci anni in poche frasi, ed io i miei in un solo saluto.
E pensavo dondolato dal vagone: "Cara amica, il tempo prende e il tempo dà.
Noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa.
Restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio, di case intraviste da un treno.
Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, e il cuore di simboli pieno."
DUE ANNI DOPO
Visioni e frasi spezzettate si affacciano di nuovo alla mia mente,
l'inverno o il freddo le han portate, o son cattivi sogni solamente.
Mattino verrà e ti porterà le silhouettes consuete di parvenze,
poi ti sveglierai e ricercherai di desideri fragili esistenze.
Lo specchio vede un viso noto ma hai sempre quella solita paura
che un giorno ti rifletta il vuoto oppure che svanisca la figura.
E ancora non sai se vero tu sei, o immagine da specchi raddoppiata.
Nei giorni che avrai però cercherai l'immagine dai sogni seminata.
L'inverno ha steso le sue mani e nelle strade sfugge ciò che sento.
Son trine bianche e nere i rami che cambiano contorno ogni momento.
E ancora non sai come potrai trovare lungo i muri un'esperienza;
sapere vorrai, ma ti troverai due anni dopo al punto di partenza.
E senti ancora quelle voci di mezzi amori e mezze vite accanto;
non sai però se sono vere, o sono dentro all'anima soltanto;
nei sogni che hai, sai che canterai di fiori che galleggiano sull'acqua.
Nei giorni che avrai ti ritroverai due anni dopo sempre quella faccia.
PRIMAVERA DI PRAGA
Di antichi fasti la piazza vestita grigia guardava la nuova sua vita:
come ogni giorno la notte arrivava, frasi consuete sui muri di Praga.
Ma poi la piazza fermò la sua vita e breve ebbe un grido la folla smarrita
quando la fiamma violenta ed atroce spezzò gridando ogni suono di voce.
Son come falchi quei carri appostati; corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
quando ciascuno ebbe tinta la mano, quando quel fumo si sparse lontano
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava all'orizzonte del cielo di Praga.
Dimmi chi sono quegli uomini lenti coi pugni stretti e con l'odio fra denti;
dimmi chi sono quegli uomini stanchi di chinar la testa e di tirare avanti;
dimmi chi era che il corpo portava, la città intera che lo accompagnava:
la città intera che muta lanciava una speranza nel cielo di Praga.
SCIROCCO
Ricordi? Le strade erano piene di quel lucido scirocco
che trasforma una realtà abusata e la rende irreale,
sembravano alzarsi le torri in un largo gesto barocco
e in via dei Giudei volavano velieri, come in un porto canale.
Tu, dietro al vetro di un bar impersonale,
seduto a un tavolo da poeta francese,
con la tua solita faccia aperta ai dubbi
e un po' di rosso, routine dentro al bicchiere;
pensai d'entrare per stare assieme a bere
e a chiaccherare di nubi.
Ma lei arrivò affrettata, danzando nella rosa
di un abito di percalle che le fasciava i fianchi,
e cominciò a parlare, ed ordinò qualcosa,
mentre nel cielo rinnovato correvano le nubi a branchi
e le lacrime si aggiunsero al latte di quel tè
e le mani disegnavano sogni e certezze,
ma io sapevo come ti sentivi schiacciato
fra lei e quell'altra che non sapevi lasciare,
tra i tuoi due figli e l'una e l'altra morale;
come sembravi inchiodato.
Lei si alzò, con un gesto finale,
poi andò via, senza voltarsi indietro,
mentre quel vento la riempiva di ricordi impossibili,
di confusione e immagini.
Lui restò, come chi non sa proprio cosa fare,
cercando ancora chissà quale soluzione,
ma è meglio poi, un giorno solo da ricordare
che ricadere in una nuova realtà sempre identica.
Ora non so davvero dove lei sia finita,
se ha partorito un figlio o come inventa le sere;
lui abita da solo e divide la vita
tra il lavoro, versi inutili e la routine di un bicchiere.
Soffiasse davvero quel vento di scirocco
e arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare
dietro la faccia abusata delle cose,
nei labirinti oscuri delle case,
dietro lo specchio segreto di ogni viso
...dentro di noi.
L'AVVELENATA
Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni,
credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni?
Vabbè, lo ammetto che mi son sbagliato e accetto il Crucifige e così sia.
Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato.
Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante.
Mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più di un cantante.
Giovane ingenuo, io ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo,
e un cazzo in culo e accuse di arrivismo, dubbi di qualunquismo son quello che mi resta.
Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi chiedo scusa a Vossia.
Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia.
Io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia, senza applausi o fischi,
vendere o no non passa fra i miei rischi: non comprate i miei dischi e sputatemi addosso.
Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a cantare?
Godo molto di più nell'ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare.
Se son d'umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie;
di solito ho da far cose più serie: costruir su macerie o mantenermi vivo.
Io tutti, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, io
fascista,
io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista!
Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino,
io solo qui alle quattro del mattino, l'angoscia e un po' di vino, voglia di bestemmiare.
Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento.
Ovvio, il medico dice: "sei depresso": nemmeno dentro al cesso possiedo un mio
momento.
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no d'un certo metro,
compagni, il gioco si fa peso e tetro: comprate il mio didietro, io lo vendo per poco.
Colleghi cantautori, eletta schiera che si vende alla sera per un po' di milioni:
voi che siete capaci fate bene aver le tasche piene e non solo i coglioni.
Che cosa posso dirvi? Andate e fate. Tanto ci sarà sempre, lo sapete,
un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate.
Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso.
Mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino e poi sono nato fesso.
E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare.
Ho tante cose ancora da raccontare, per chi vuole ascoltare, e a culo tutto il resto!
DIO E' MORTO
Ho visto
la gente della mia età andare via,
lungo le strade che non portano mai a niente,
cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano,
nel mondo che hanno già, dentro alle notti che dal vino son bagnate,
dentro alle stanze da pastiglie trasformate,
lungo alle nuvole di fumo del mondo fatto di città,
essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà,
è un Dio che è morto:
ai bordi delle strade Dio è morto,
nelle auto prese a rate Dio è morto,
nei miti dell'estate Dio è morto.
Mi han detto
che questa mia generazione ormai non crede
in ciò che spesso ha mascherato con la fede,
nei miti eterni della Patria o dell'eroe
perché è venuto ormai il momento di negare
tutto cio che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura,
una politica che è solo far carriera,
il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto,
l'ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto,
è un Dio che è morto:
nei campi di sterminio Dio è morto,
coi miti della razza Dio è morto,
con gli odii di partito Dio è morto.
Ma penso
che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata,
ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi,
perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge:
in ciò che noi crediamo Dio è risorto,
in ciò che noi vogliamo Dio è risorto,
nel mondo che faremo Dio è risorto!
LA LOCOMOTIVA
Non so che viso avesse, neppure come si chiamava,
con che voce parlasse, con quale voce poi cantava,
quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l'immagine sua: gli eroi sono tutti giovani e belli.
Conosco invece l'epoca dei fatti, qual era il suo mestiere:
i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere.
I tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti:
sembrava il treno anch'esso un mito di progresso, lanciato sopra i continenti.
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano,
che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano:
ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo, la stessa forza della dinamite.
Ma un'altra grande forza spiegava allora le sue ali:
parole che dicevano "gli uomini sono tutti uguali",
e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via
la bomba proletaria, e illuminava l'aria la fiaccola dell'anarchia.
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione:
un treno di lusso, lontana destinazione.
Vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente attorno, pensava un treno pieno di signori.
Non so che cosa accadde, perché prese la decisione.
Forse una rabbia antica, generazioni senza nome
che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore,
dimenticò pietà, scordò la sua bontà, la bomba sua la macchina a vapore.
E sul binario stava la locomotiva:
la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva,
sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno
mordesse la rotaia con muscoli d'acciaio, con forza cieca di baleno.
E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo,
pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto:
salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura,
e prima di pensare a quel che stava a fare, il mostro divorava la pianura.
Correva l'altro treno ignaro, quasi senza fretta:
nessuno immaginava di andare verso la vendetta.
Ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno:
"Notizia di emergenza, agite con urgenza, un pazzo si è lanciato contro il
treno!"
Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva,
e sibila il vapore, sembra quasi cosa viva,
e sembra dire ai contadini curvi, il fischio che si spande in aria:
"Fratello non temere, che corro al mio dovere! Trionfi la giustizia proletaria!"
E intanto corre corre corre sempre più forte,
e corre, corre, corre, corre verso la morte,
e niente ormai può trattenere l'immensa forza distruttrice,
aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto della grande consolatrice.
La storia ci racconta come finì la corsa:
la macchina deviata lungo una linea morta.
Con l'ultimo suo grido d'animale la macchina eruttò lapilli e lava,
esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo, lo raccolsero che ancora respirava.
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore,
mentre fa correr via la macchina a vapore,
e che ci giunga un giorno ancora la notizia
di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia!
STATALE 17
Statale 17, il sole cade a picco,
tre giorni sulla strada, nessuno che mi carichi,
nessuno che si fermi, mentre tu chissà se aspetti me,
mentre qui l'asfalto che si scioglie brucia i tacchi alle mie scarpe,
sono a terra senza un soldo, chissà mai se arriverò da te.
Statale 17, com'è lunga da far tutta,
romba svelto l'autotreno; questo cielo ancor sereno
sembra esplodere d'estate mentre tu chissà se pensi a me,
mentre qui mi sento solo al mondo, senza un cane che mi cerchi,
son sudato e sono sporco, chissà mai se arriverò da te.
Statale 17, sembri esplodere nel sole.
Statale 17, alzo il dito inutilmente.
Statale 17, lungo nastro di catrame, la gente bene dorme,
sei deserta all'orizzonte, a quest'ora non c'è un cane che mi voglia prender su.
Statale 17, sei triste nella sera, non alzo più la mano,
cammino piano piano sulla strada ormai deserta mentre tu chissà se aspetti ancora,
mentre qui la strada che si sperde sembra un letto di cemento,
sono mortalmente stanco, chissà mai se arriverò da te.
NOI NON CI SAREMO
Vedremo soltanto una sfera di fuoco, più grande del sole, più vasta del mondo;
nemmeno un grido risuonerà, solo il silenzio come un sudario si stenderà
fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno, ma noi non ci saremo.
Poi per un anno la pioggia cadrà giù dal cielo
e i fiumi solcheranno la terra di nuovo, verso gli oceani correranno,
e ancora le spiagge risuoneranno delle onde,
e in alto nel cielo splenderà l'arcobaleno, ma noi non ci saremo.
E catene di monti coperti di neve saranno confine a foreste di abeti
mai mano d'uomo le toccherà, e ancora le spiagge risuoneranno delle onde
e in alto, lontano, ritornerà il sereno, ma noi non ci saremo.
E il vento d'estate che viene dal mare intonerà un canto fra mille rovine,
fra le macerie delle città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà
fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo, ma noi non ci saremo.
E dai boschi e dal mare ritorna la vita, e ancora la terra sarà popolata,
fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà
gli spazi di sempre per mille secoli almeno, ma noi non ci saremo |